Last Call: le questioni che abbiamo posto nel dibattito dopo il documentario sul rapporto sui limiti dello sviluppo

20 Aprile 2014

di Cinzia di Fenza

Pres. Associazione Oltre La Crescita

Il Rapporto Limits to growth”, commissionato dal Club di Roma al MIT di Boston e pubblicato nel 1972, è stato ed è una pietra miliare della riflessione e dell’allerta sulle conseguenze della crescita infinita basta sul prelievo continuo di risorse.

Pur non avendo la pretesa di fare previsioni precise, in realtà aveva inteso innanzitutto  lanciare alla comunità internazionale – scientifica, politica, economica, ma anche all’opinione pubblica –  un messaggio chiaro: l’impossibilità della crescita (produttiva) infinita. E al contempo quantificare una realtà che oggi dovrebbe essere evidente e ormai acquisita diffusamente.

Il Rapporto era, nelle intenzioni del Club di Roma che lo aveva commissionato, anche un invito ad agire  per modificare una tendenza che già allora si stava manifestando come inarrestabile.

Eppure – come  mostra efficacemente il docufilm Last Call che abbiamo proiettato per il II incontro della nostra Rassegna  Perché abbiamo bisogno di un altro modello di sviluppo e come costruirlo, domenica 9 marzo – malgrado i  milioni di copie vendute e il dibattito scatenato allora, le cose non sono andate così e in definitiva nulla è cambiato.

Dopo la proiezione – e leggendo il rapporto –  viene allora da chiedersi: Come è possibile che , a distanza di 40 anni  da quel dibattito e dinnanzi ai segnali ormai evidenti del degrado ambientale, del cambiamento climatico, dell’esaurimento delle risorse, del peggioramento della qualità di vita delle persone ovunque nel mondo, manchi ancora una coscienza diffusa che non si può continuare a crescere all’infinito? Che non si comprenda che ci sono dei limiti fisici della Terra per cui non possiamo continuare a prelevare risorse per produrre e consumare a questo ritmo per sempre? Che non si colga il fatto che tutti questi accadimenti sono connessi? Che è questo modello di sviluppo unico, che stiamo seguendo senza più porci domande sulle sue conseguenze e senza renderci conto che non produce più benefici per le nostre società e per la qualità di vita, la causa sistemica dello stato in cui ci troviamo oggi tutti?

Di chi  la responsabilità? Di tutti. La politica e i governi a livello globale perché incapaci di avere una visione della problematica e delle relazioni, fossilizzati nel breve termine. I media mainstream, perchè hanno perso il loro ruolo di fare informazione, perché non mettono in discussione il modello economico, perché non sono più un canale per contribuire a formare un’opinione pubblica matura su questi temi e in grado di capire e operare scelte e decisioni nella vita quotidiana e soprattutto in quella pubblica. Noi tutti individualmente, perché  come esseri umani, siamo abituati a  pensare a breve termine, a quello che è più immediatamente vicino a noi e al nostro quotidiano.

Insomma, perché abbiamo perso  la capacità di vedere il futuro.

Le riflessioni che i partecipanti all’incontro e alla proiezione hanno espresso, pongono tutte questioni importanti che da sole potrebbero già costituire un canovaccio della problematica complessa di un altro modello di sviluppo che i governi e la politica dovrebbero affrontare oggi.

Come colmare il divario tra democrazia  e sostenibilità?

Quale parola dopo la sostenibilità?

Quale responsabilità dell’informazione dei media nell’alimentare il mantra della crescita come soluzione di tutti i nostri mali (sempre e ovunque e a qualsiasi costo).

La rispondenza che ci fu al messaggio lanciato dal Rapporto negli anni ’70 nel mondo politico internazionale e la capacità di mobilitazione confrontata  al distacco totale dalla questione da parte invece della classe politica attuale.

Siamo in grado di capire l’andamento del cambiamento naturale?

La conoscenza scientifica sui temi ambientali e più in generale di uno sviluppo sostenibile(volendo utilizzare il termine più “diffuso”, benché oggi discutibile), oggi è altissima, eppure non vi corrispondono decisioni politiche e i ritardi nelle decisioni ci stanno portando al collasso.

L’incapacità di vedere il futuro e di cogliere le interrelazioni tra i problemi quindi di comprendere la complessità era stata appunto una delle grandi intuizioni del Rapporto e anche del suo principale promotore all’interno del Club di Roma, Aurelio Peccei.

L’attualità e l’urgenza del suo pensiero, riflessa nel messaggio del Rapporto, è evidente anche quando si sottolinea (nella Prefazione al testo italiano) l’importanza della formazione dei cittadini e dell’opinione pubblica da una parte, e dell’assunzione e presa di coscienza della problematica dei limiti della crescita da parte della politica  (e delle politiche pubbliche). E di cambiare sostanzialmente e prima di tutto l’immaginario e i modelli culturali che ci accompagnano ancora.

L’importanza di  creare e moltiplicare spazi e percorsi di conoscenza  collettiva e di sviluppo di dialogo e consapevolezza diffusa di questioni che ci toccano ormai e che dobbiamo saper e poter affrontare responsabilmente a tutti i livelli,

Domande aperte e che riguardano davvero problemi del mondo, ma che – come già aveva intuito il grande Aurelio Peccei nel Rapporto e nel suo bellissimo e visionario “La qualità umana” – poiché toccano già e toccheranno tutti, sono già problemi di ciascuno di noi.

Ma oggi, “chi si cura del mondo”?

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