Cosa ci consegna la Conferenza Onu di Parigi sul clima? Tra questioni irrisolte, risultati immateriali, società civile. Appunti (anche) da un dibattito pubblico

15 Febbraio 2016

Cosa ci consegna la Conferenza Onu di Parigi sul clima? Tra questioni irrisolte, risultati immateriali, società civile. Appunti (anche) da un dibattito pubblico

di Cinzia Di Fenza[1]

Il 2015 è stato l’anno più caldo della storia. Lo afferma la NOAA, l’Agenzia statunitense per l’oceano e l’atmosfera. E il quarto anno record delle temperature dal 2000 a oggi.
Parte del picco della temperatura è dovuto all’impatto di El Niño, il fenomeno ciclico di riscaldamento delle acque del Pacifico, che si ripercuote su ampi tratti del pianeta. Secondo gran parte degli scienziati, però, la causa più rilevante sono sempre i cambiamenti climatici indotti dalle attività umane.

In Europa, il 2015 è stato il secondo anno più caldo di sempre, battuto solo dal 2014, secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), per la quale il riscaldamento globale ha già superato, sostiene, una “soglia simbolica”.

climate change NASA

NASA

A dicembre si è chiusa a Parigi la Cop 21, la Conferenza annuale delle parti dell’Onu sulla lotta al cambiamento climatico – considerato il più importante appuntamento del secolo, dopo venti appuntamenti dal ‘92 ad oggi… – dove i 194 paesi coinvolti si sono incontrati per decidere come ridurre le emissioni, in modo da rallentare il riscaldamento globale.

Il 5 febbraio a Roma (presso il Centro diurno San Paolo) Oltre La Crescita ha voluto realizzare un incontro di riflessione e di dibattito pubblico (qui il programma) per capire meglio e fornire qualche strumento in più per valutare quanto è accaduto.

Parlandone con Marica Di Pierri, portavoce di A Sud, attivista sui temi ambientali, che ha seguito in diretta la conferenza di Parigi e partecipato alla mobilitazione di quei giorni.

5 febb -clima

Senza voler entrare in analisi tecniche, emergono però subito, dall’Accordo concluso in quella occasione, alcune questioni (qui un articolo dell’Huffington Post che le riassume) che dovrebbero quantomeno far riflettere e interrogarci sulla volontà politica reale e condivisa, sulla portata, la fattibilità e le conseguenze effettive di quanto è stato deciso in questa occasione. Decisioni che è importante conoscere e che devono interessarci tutti, perché, è il caso di sottolinearlo, come milioni di persone e molti paesi già oggi in modo grave, presto saremo investiti seriamente dagli effetti del cambiamento climatico, se non si cambia rotta.

Di queste (ed altro) abbiamo ragionato e discusso anche nell’incontro.

L’obiettivo deciso a Parigi è di stabilizzare l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°C “, compiendo ciascuno gli “sforzi possibili per raggiungere 1,5°C” “. L’accordo però non dice concretamente come lo raggiungerà. Inoltre nell’Accordo quello che conta sono gli impegni dei singoli Paesi e alcuni hanno già annunciato che procederanno in modo diverso.

La comunità scientifica in modo ormai pressoché compatto, nonché molti attivisti del clima sostengono che un simile ambizioso obiettivo potrà essere raggiunto solo se il 90% dei rimanenti combustibili fossili del mondo saranno tenuti sottoterra. Ciò implicherebbe che entro la metà del secolo i paesi firmatari dovrebbero compiere una transizione veloce dai combustibili fossili verso fonti di energia rinnovabili. [2]

L’Accordo entrerà in vigore solo nel 2020. L’urgenza della crisi climatica invece richiede ormai decisioni e investimenti meno diluiti nel tempo.

Contrasto tra impegni e misure vincolanti. L’Accordo si definisce vincolante, ma non prevede meccanismi di sanzione. In sostanza, questo si traduce in un compromesso con gli interessi di quei Paesi (ad es. India, Cina) che puntano ancora alla crescita economica, pur muovendosi già nella direzione di una riduzione drastica dell’uso di combustibili fossili per contrastare l’inquinamento

Un altro punto ambiguo è quello del meccanismo Loss&Damage, formalmente inserito per sostenere le popolazioni più vulnerabili al cambiamento climatico, che però non è definito nel sistema di indennizzi previsto.

Altri interrogativi importanti riguardano il ruolo delle multinazionali e dei privati, presenti alla conferenza con le loro lobbies, e quello delle politiche pubbliche già in atto (ad es., per l’Italia, progetti estrattivisti (leggi trivellazioni), che contrastano palesemente con gli obiettivi dell’Accordo (“emissioni zero”) e che, queste ultime, non sono mai state messe in discussione dai negoziatori del summit.

Infine, ci sono le contraddizioni tra gli obiettivi dell’Accordo e quelli di negoziati globali “sul commercio”, quali, ad esempio, il TTIP, cioè il negoziato globale in corso tra UE e USA che riguarda anche l’ambiente e la sostenibilità di questo modello di sviluppo. Accordo che sta tentando di abbattere i vincoli all’espansione del commercio, cioè le norme di tutela e conservazione ambientale che ancora abbiamo (con tutti i limiti) in Europa.

Prima della conferenza, l’Ue ha fatto sapere ai movimenti europei STOP TTIP che “ogni misura adottata per combattere il cambiamento climatico” non dovrebbe costituire un mezzo di “restrizione del commercio internazionale”. Il veto a trattare degli impatti delle liberalizzazioni del commercio sulla lotta al cambiamento climatico lascia intuire che nei negoziati della COP 21, gli interessi economici per l’UE sono venuti prima della tutela dell’ambiente.

Come ha posto chiaramente anche Naomy Klein durante i suoi reportage dalla conferenza, accusando i politici presenti alla Cop21 di appoggiare gli accordi con le grandi corporation e di favorire le esportazioni di petrolio e di gas: “Perché partecipano a vertici come quello di Parigi, se poi con i trattati commerciali ostacolano le politiche ecologiste?” (su Internazionale del 10 dicembre).

Siamo nell’era dell’Antropocene, come abbiamo anche ricordato con Marica Di Pierri durante l’incontro pubblico del 5 febbraio a Roma. Cioè, tradotto in pratica, è la prima volta che l’ecosistema in cui viviamo viene modificato principalmente da noi. E’ quanto sta accadendo negli ultimi 60-70 anni, un lasso di tempo infinitesimale, ma definito anche “la grande Accelerazione”.

Gli esiti dell’accordo di Parigi portano a concludere che alla fine si sia scelta la strada degli interventi di più facile attuazione, una mediazione politica, senza guardare molto lontano, né considerare davvero le generazioni future.

Soprattutto è grave vedere confermato che ancora non emerga alcuna volontà o interesse a mettere in discussione concretamente il sistema economico e il modello di sviluppo attuale, che, da decenni il mondo scientifico (dal Rapporto del Club di Roma sui limiti della crescita degli anni ‘70) indica come la causa profonda di questa situazione e il cui rovesciamento pare ormai la sola strada praticabile se vogliamo invertire realmente la rotta e salvarci.

C’ è poi una considerazione che riguarda il modo di fare informazione dei media tradizionali, ma anche per certi versi di parte dell’associazionismo soprattutto “ambientalista”. Titoli o toni ottimistici o trionfalistici (“accordo storico“ o simili) che, considerando anche i tempi velocissimi dell’informazione e delle notizie anche ai tempi della Rete, hanno prodotto un effetto “anestetizzante” su una parte di persone ancora poco attenta o interessata o in grado di interpretare quanto è accaduto. E questo conta.

Allo stesso tempo, a distanza di due mesi, forse possiamo dire che la COP 21 ci ha anche consegnato alcuni esiti positivi più indiretti e immateriali su cui continuare ad investire ed ha, pur con enormi limiti, cominciato a “smuovere” qualcosa.

Un esito (e al contempo una causa ed uno stimolo forte ad alcuni risultati ottenuti) è stato la mobilitazione internazionale della “società civile”, cioè di tutti quei milioni di persone, individui e associazioni e movimenti vari, direttamente o indirettamente coinvolte a Parigi, e in tutto il mondo, marciando per le strade, informando e condividendo anche sui social media, promuovendo iniziative di sensibilizzazione e confronto a livello locale, anche auto organizzate.

Questa realtà c’è e va considerata e valorizzato il ruolo che ha avuto in questa occasione e in tutto il percorso che l’ha preceduta e anche dopo, insistendo alla fine soprattutto sulla necessità di affrontare concretamente il problema globale della giustizia climatica.

In Italia, ad esempio, sul problema delle trivellazioni in mare, il coordinamento nazionale NO Triv (e molte Regioni) da tempo ha mobilitato cittadini, associazioni e istituzioni per chiedere un referendum contro il provvedimento che le autorizzava (art. 38 del cosiddetto “Sblocca-Italia” e 35 del Decreto Sviluppo). Ritenuto legittimo dalla Cassazione e poi dalla Corte costituzionale, il referendum sul divieto di ricerca ed estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa si terrà il 17 aprile. Sebbene il merito del referendum sia già stato molto “annacquato” dal Governo (il divieto nel referendum riguarda infatti solo le trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa…, ma oltre le 12 miglia resta tutto invariato e le società autorizzate continueranno a trivellare) comunque si farà ed è facile intuire che abbia pesato molto probabilmente, anche l’onda della mobilitazione di Parigi e il dibattito sui combustibili fossili.

Come sta accadendo anche su altre questioni globali – come appunto il TTIP e altri accordi pseudo-commerciali in corso nel mondo e in Italia (seppur non con i numeri delle mobilitazioni che avvengono in altri paesi) – o su norme come lo “Sblocca Italia”, “Buona Scuola”, ecc., è ormai innegabile il contributo che la mobilitazione e le diverse forme di reazione dal basso, organizzate e non, azioni di informazione (anche nelle relazioni quotidiane con le persone), di confronto e approfondimento, stanno dando su scelte pubbliche e verso processi di cambiamento. Sono cambiamenti che richiedono tempi lunghi che contrastano con l’urgenza dei problemi globali. Eppure, mobilitarsi in senso lato resta essenziale per costruire paradigmi anche culturali diversi ed invertire la rotta.

[1] Pres. Associazione culturale Oltre La Crescita

 

[2] Il 9 dicembre, negli ultimi giorni della conferenza, Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University, su Il Sole 24ore ha sottolineato come la comunità scientifica sia ormai concorde che per stabilizzare il clima è indispensabile una decarbonizzazione totale dei nostri sistemi energetici per arrivare entro il 2070 a zero emissioni di gas serra nette e che sia l’unica soluzione per scongiurare le conseguenze disastrose dell’innalzamento delle temperature oltre la soglia massima dei 2 gradi centigradi. Ma anche che esiste un’altra strada, perseguibile a breve termine (convertire le centrali energetiche a carbone in centrali alimentate a gas entro il 2030) perché meno costosa e impegnativa, basandosi solo su una “accomodatura delle nostre attuali tecnologie”, che però porterà ad un vicolo cieco dopo il 2030.

 

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